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#IoStoInGarage n.3 – Il tetto apribile

di Carlo Giuliani

Quarantena. Io in casa, la 500 in garage. Le prime giornate di primavera fanno ancora più venire voglia di scendere, riattaccare la batteria, accendere il motore ed uscire. Ma non è questo il momento, anzi.

E’ invece l’occasione giusta per fare qualcosa di diverso.
Mi rendo conto di come, prima che il mondo si fermasse di colpo, la quotidianità avesse via via tolto tempo per molte cose care. Come la mia D. Amata e coccolata per anni con attenzioni regolari e assidue, ultimamente avevo giocoforza diradato le sere trascorse in garage a controllarla e lucidarla.
Ora che sono quasi obbligato a ritrovare una mia dimensione, a dilatare nel tempo azioni che si svolgevano in fretta, sento che è arrivato il momento giusto per tornare a vivere la mia bicilindrica senza doverla necessariamente muovere.
Prendo l’ascensore e raggiungo il garage.

Quando il rimbombo metallico della serranda si interrompe qualche ciuffo di polvere scende lentamente dall’alto. In effetti era già da un po’ che non tornavo dalla 500.
Mi avvicino e con una mano accarezzo le forme di un parafango. Sorrido, sentendola al tatto un po’ impolverata.
Apro la porta e mi siedo al posto di guida. Guardo l’abitacolo e provo, intatta, la sensazione di quando ero riuscito a portarla finalmente a casa. Io avevo diciannove anni, lei trenta. Quasi una vita fa. Con lo sguardo ripercorro tutti i particolari che, nel tempo, ho ripulito, ripristinato, rimesso a nuovo. Alzo gli occhi e vedo con un tuffo al cuore che la parte interna del tettuccio, quella di colore chiaro, ha qualche macchia di muffa. Devono essere stati questi mesi di inattività. Alzo la capote ed un piccolo pezzo di ruggine si adagia sul sedile del passeggero. Proviene dalla traversa della parte basculante.

Credo sia arrivato il momento di controllare come sta il tetto apribile della 500.

Cerco un paio di guanti da lavoro e prendo i primi ferri dal cassetto del carrello. Comincio smontando la modanatura che fissa posteriormente la base della copertura al padiglione, togliendo le due viti agli estremi che fermano le fettucce interne alla tela e mollando dall’abitacolo con una chiave a tubo i dadini che la tengono fissata.
Mi munisco di una chiave a cricchetto con una bussola nella quale inserisco una pallina di carta morbida per farvi fuoriuscire più facilmente i dadi che andrò mano a mano a svitare.

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Liberato il tettuccio dal suo ancoraggio di base, procedo mollando i dadi a ghiera che fanno da perno per la traversa di apertura della capote.
Ho così smontato dalla macchina tutta la tela con la sua struttura. 
Per prima cosa, vado a vedere se il ristagno d’acqua dall’attacco posteriore non abbia favorito la creazione di focolai di ruggine, specie nella parte più esterna. Se così fosse, dovrò come prima cosa risanare in profondità le parti ammalorate per fermare il processo di ossidazione. Per fortuna qui va tutto bene. Controllo per scrupolo anche tutte le altre parti in cui il tettuccio poggia sulla carrozzeria in cerca di qualche scalfitura della vernice che possa prima o poi dare problemi ma anche qui tutto sembra in ordine.
Do un’occhiata allo stato della copertura. Passo una mano sulla tela. E’ ancora morbida e in buono stato, basterà una bella lavata ed un trattamento impermeabilizzante.
Quindi, la smonto anche dalla sua ossatura anteriore. Mollo le viti che assicurano la modanatura di fissaggio che blocca tela e traversa e sfilo delicatamente l’ossatura dalla copertura.
Passo poi a staccare dalla capote la centina centrale. Con un trapano da modellismo cerco di agire in maniera il più possibile chirurgica forando dalla parte inferiore i ribattini di fissaggio con una punta piccola, da 2 millimetri, o con una piccola fresa da metallo lavorando a bassa velocità per non allargare i buchi della centina. Ci metto qualche minuto ma ho evitato di fare danni.

Ora posso guardare bene se anche questa ossatura centrale abbia bisogno di cure, specialmente sotto ai tasselli in gomma infilati ai suoi estremi che sfilo con grande delicatezza per non rovinarli. Sono ancora i suoi di origine.
Questa parte è in perfetto stato. Mi limiterò quindi a rimontarla non prima di aver ben imbottito i tasselli di gomma con dello spray al silicone che ne preserverà la morbidezza ancora per un po’di anni.
Prendo la tela e procedo al suo lavaggio. Acqua corrente e sapone neutro, insieme con una spazzola morbida, fanno miracoli. La muffa e gli aloni di sporco nella parte interna richiedono invece qualche spruzzata di sgrassatore per scomparire del tutto.
La faccio asciugare bene. Quando sarà completamente asciutta tratterò la parte esterna con un ravvivante specifico per capotes o, stando ben lontano da qualsiasi parte verniciata, con un buono spray al silicone.
Tanti anni fa, su un’altra tela avevo provato invece a fare ricorso all’olio di lino, come si usava una volta coi tetti in pegamoide. Fu un disastro. Oltre ad impestare macchina e garage con il suo odore mefitico, una volta seccato aveva irrigidito il materiale plastificato rendendo irreversibilmente la capote una specie di pergamena nera. Lezione difficile da dimenticare.
Ma torniamo ad oggi ed alla capote lavata. Una volta fatta completamente asciugare, posso impermeabilizzarne la parte nera con lo spray che lascerò agire per qualche ora.
Ora si tratta di vedere in che condizioni si trovi l’ossatura anteriore, quella da cui si è staccato un pezzo di ruggine.
Come temevo, la parte della traversa coperta dalla tela è stata aggredita, problema che spesso si riscontra sulla 500.
Per fortuna l’ossidazione non ha ancora compromesso eccessivamente la struttura e mi permette di tentare un recupero. Il mio esemplare ha ancora l’ossatura del tettuccio di primo impianto, realizzata con una cura costruttiva completamente diversa da quelle di produzione attuale.

E poi, se proprio non fosse necessario, non cambierei mai un pezzo ancora originale per uno realizzato oggi. Senza parlare della soddisfazione di aver recuperato un componente nato insieme alla mia macchina preferita.
Smonto quindi le parti applicate come le maniglie di chiusura. Sulla D si riescono a smontare con un po’ di lavoro; fosse stata una serie successiva con la maniglia ribattuta nella sua sede avrei magari considerato l’ipotesi di mascherarla con del nastro di carta.
Alternando carta vetro, levigatrice e spazzola di ferro porto via con cura tutta la ruggine. Con una sabbiatrice avrei fatto molto prima.
Finito ciò, si tratta di bloccare il processo di ossidazione. Mi procuro un convertitore con effetto fosfatante, il migliore per questi casi, e ne passo un paio di mani a pennello.

Una volta ben asciugato, vado a coprire i piccoli buchi lasciati dalla ruggine con stucco metallico, dopodiché il pezzo è pronto per essere verniciato prima con smalto di fondo e poi con il colore corretto. Sulla mia D la tinta che più si avvicina a quella di origine è il Grigio 684.
Ora è il momento di andare a vedere come sta la traversa posteriore, la prima che ho smontato.

Se fosse troppo compromessa, a differenza dell’ossatura anteriore, sarà meglio sostituirla piuttosto che dedicarsi ad un ripristino lungo e faticoso. Questo anche in considerazione del fatto che, se aggredite dalla ruggine, le filettature dei bulloni ad essa saldati potrebbero deteriorarsi o indebolirsi.
Se però ne dovrò montare una nuova dovrò avere delle precauzioni ben precise. La gran parte delle traverse di attuale produzione, infatti, viene fornita in ferro nudo senza aver ricevuto nessun trattamento atto a prevenirne un rapido arrugginimento. Montarla così come è inizierebbe a marcire quasi subito. Nel caso, se ci fosse la possibilità dovei farla zincare per garantirne l’inattaccabilità ma se non trovo nessuno che possa farlo dovrò trattarla con convertitore, con zincatura spray a freddo o altro prodotto che possa renderla più resistente.

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Mentre sono assorto in questi pensieri neanche mi accorgo che quella che ho in mano è ancora come nuova. Perfetto, le darò solo una leggera verniciata di rinforzo.

Ho finito di risanare, di ripulire e di ricontrollare tutti i componenti. Ora posso rimontare la capote. Per prima cosa ripristino la costola centrale.
I ribattini che la fissano vanno del tipo verniciato in nero raggrinzato o comunque nero opaco, che sono storicamente più corretti di quelli cromati. Meglio sempre averne qualcuno in più: spesso si riescono a montare al meglio dopo averne conciato male due o tre. Ma è anche questo il bello di fare le cose da sé, imparando ogni volta un lavoro nuovo anche a costo di faticare un po’.

Per montarli basta avere una ribattitrice o di un martello con dei tassi di legno.
Mi rendo conto di non avere né ribattitrice né tassi. Mi ingegno con un fissaggio alternativo aiutandomi con una pinza a scatto. Frapponendo due legnetti fra le ganasce della pinza e le parti del ribattino stringo sempre di più facendo scattare l’utensile fino a quando non riesco a procedere oltre. Provo a scuotere la costola e ne salta uno. Prendo un nuovo ribattino e rifaccio da capo. Stavolta tengono tutti e due.
Ora posso rimontare l’ossatura anteriore fissandola nella sua posizione obbligata.

La parte interna, quella cioè che andrà ad aderire alla carrozzeria quando il tettuccio è chiuso, è originariamente imbottita con un piccolo strato di gommapiuma, che ho sostituito con del più performante neoprene. Essendo questo un particolare che favorisce il ristagno dell’umidità, spruzzo prima del montaggio una buona quantità di spray idrofugo per evitare il più possibile che questo fenomeno si abbia a verificare.
Finito ciò, avvito l’ossatura alla carrozzeria tramite le sue due boccole.

Vado quindi a fissare la tela fra la traversa posteriore e la scocca, dopo aver messo un pane di polistirolo fra tettuccio e scocca per tenerlo un po’ aperto. Così si lavora meglio.
Stendo un velo sottile di grasso o di vaselina sulle filettature dei bulloni per preservarli ulteriormente dall’umidità.
Entro nell’abitacolo per proseguire. Le filettature restano incassate all’interno della costola del tetto e avvitare i dadi nella loro sede può rivelarsi piuttosto difficoltoso.
Invento un espediente: anzitutto inserisco all’interno della chiave a bussola la pallina di carta che permetterà al dado di trovarsi alla sua estremità esterna.
Poi, tengo ferma nella sua sede la rondella che andrà frapposta fra dado e carrozzeria spalmando sopra un velo di grasso che, oltre a svolgere funzione protettiva, la fa aderire al dado mantenendola in posizione. 
Ci siamo quasi.

Da ultimo, a tela rimontata do la giusta tensione alla capote tirando le fettucce che ne percorrono longitudinalmente il perimetro per poi bloccarle in posizione con le due viti agli estremi della traversa, che monto dall’esterno contrariamente ai dadi che invece si montano dall’abitacolo.
Prima di procedere ad un fissaggio definitivo, che avviene di fatto bucando con le viti le fettucce, controllo bene che la capote abbia la giusta tensione una volta chiusa dall’interno. Facile in questo caso, visto che sia tela che ossatura sono le stesse di prima. 

La capote è ripristinata. Il lavoro non è stato particolarmente difficile ed il tempo a disposizione in questi giorni permette, se si vuole, di curarlo più del normale o di portarlo avanti senza fretta.
Approfitterò di questa pausa forzata per controllare anche altre parti che, in condizioni normali, non troverei modo di guardare con questa cura. In fondo, se vogliamo vedere il lato positivo, non tutte le quarantene vengono per nuocere. Almeno alle nostre beniamine. Al prossimo ripristino!