Il socio Michele Squeri ha intrapreso una fantastica avventura: partito a novembre da Fiorenzuola (PC) con la Fiat 500 della nonna, ha attraversato parte della Russia macinando chilometri tra piccoli villaggi e paesaggi mozzafiato, ricoperti da immensi manti di neve.
Su Facebook moltissimi sono i cinquecentisti che dimostrano il proprio supporto, seguendo i coinvolgenti post e ammirando le meravigliose foto.
Attualmente Michele si trova ad Astana, la capitale del Kazakistan, ed è in attesa di pezzi di ricambio per la coraggiosa 500.
E questa è la seconda parte del suo racconto (qui trovate la prima).
In una baita, nella taiga siberiana, circondato dai cumuli della neve dell’inverno russo, lascio scorrere i pensieri.
La nevicata continua ad essere molto fitta. È iniziata un paio d’ore fa, mentre stavo guidando su una strada secondaria, nell’intento di raggiungere un posto qualunque in cui fermarmi a dormire, senza però lasciare la strada che mi porta a Barnaul.
Mi sto addentrando nei monti altay… “monti”, si fa per dire.
Le distanze tra un paese e l’altro si allungano considerevolmente ed essendo, per l’appunto, una strada secondaria, non vi sono quasi caffè o “gostiniza”, luoghi più o meno economici in cui ci si ferma a riposare, lungo le strade più battute, specialmente dal traffico commerciale.
Comunque, una l’ho trovata, isolata da qualunque centro abitato ( a meno che domani, ripartendo, non mi ritrovi una città dietro alla prima curva, ma dubito fortemente), nemmeno la cartina riporta insediamenti umani degni di nota.
Nevica forte e c’è un altrettanto forte vento che solleva nuvole di neve asciutta e fine che impediscono di vedere la strada, specialmente quando incrocio o vengo sorpassato dai camion.
Quindi sono qua, senza internet e tentato di fermarmi una seconda notte, con la voglia di “esplorare” i dintorni e provare a fare il “cacciatore di pellicce” per un giorno. Sono notevolmente in anticipo sulla tabella di marcia.
Domani mattina, decido cosa fare.
Non poco, influiranno sulla mia decisione anche le condizioni della strada.
C’è silenzio.
Ci sarebbe anche una televisione (spenta), ma la ignoro con costanza e dedizione.
C’è silenzio.
Tutta la vita disponibile è rimasta duecento metri più in là, vicina alla strada ed al ristorante, nel parcheggio dei camion e della mia macchina. Se non arriva nessuno ad occupare uno dei tre letti rimasti, sarò l’unico ad abitare questa stanza.
C’è silenzio.
Ne sono circondato come non mi succedeva da tanto e non so nemmeno io se considerarla una fortuna o una disdetta.
Giorni di pigrizia si sono susseguiti stanchi, niente foto né parole, forse avrei bisogno non di un giorno, ma di una settimana così, ma ci sono cose di cui non posso e non voglio fare a meno.
Alla fine, questo è: per quanto si cerchi avventura e scoperta, difficilmente saremo pronti a rinunciare a quel minimo di comodità… non comodità dei corpi, ché di quella mancanza me ne faccio vanto, bensì comodità dei pensieri.
Il sapere di avere qualcosa o qualcuno su cui sappiamo di poterli appoggiare, quei pensieri, in ogni momento e, in ogni momento, avere la possibilità di farlo.
immagino un Livingstone, uno Scot o un Magellano armati di telefono satellitare o, più semplicemente, di uno smartphone e connessione quasi in ogni angolo del mondo… rischi minimi e minima gloria.
Non rimpiango le morti in viaggio, sia chiaro, seppure mi sarebbe piaciuto vivere in un’epoca in cui niente si sapeva e tutto andava visto e cercato con i propri occhi e le proprie gambe.
Ci si giocava la vita per una manciata di caramelle, per una pacca sulle spalle, per l’idea di essere ricordati “per l’eternità”… per la curiosità, infine.
L’unica cosa che non è cambiata da allora sono le motivazioni, ma si è alzato a dismisura il limite.
C’è silenzio.
Forse mi dispiace un po’, forse e volentieri lo vorrei rotto.
Do un valore alla mia vita che, fino a poco fa, non pensavo avesse.
Immagino cieli azzurri apparecchiarsi sopra la mia testa, e la nevicata di questa sera mi aiuta a sognarli, ed il silenzio di questa sera mi aiuta a tenermeli stretti, e l’avventura di questo viaggio li imprimerà nella mia memoria come l’inizio di un’altra vita.
Nel silenzio della notte, si risvegliano i draghi.
………………….
Stamattina sono ripartito sfidando la tormenta, i camion con i loro sorpassi, la strada interamente coperta di neve compatta ed una visibilità quasi nulla in cui la strada si confondeva con il resto dell’universo.
In un momento di distrazione, mi sono ritrovato fermo nella neve fresca, bloccato, con le ruote che slittavano.
(cose da ricordare: mai…MAI fare fotografie MENTRE si guida una cinquecento, in una tormenta di neve, con la visibilità di una talpa in un solarium)
ne sono uscito con nemmeno troppo sudore, un po’ di ingegno e forza di braccia.
La strada alterna brevi tratti relativamente veloci ad altri in cui mi sembra di essere in un frullatore, temo di perdere pezzi della cinquecento.
Dopo un’ottantina di chilometri in queste condizioni, mi fermo in un altro “dormitorio”.
Ho del tempo da spendere, ho dei calcoli da fare.
Arriveranno, tra quasi duemila chilometri, i pezzi di ricambio che mi servono.
Per il gioco dei visti e della loro durata, devo attendere, prima di entrare in Kazakistan.
Mi fa un po’ paura stare fermo ad aspettare… chissà quali folli idee potrebbero nascere dalla noia di una lunga attesa…
Ieri mattina, poco prima dell’alba, parto con una certa fiducia nel rossore che si intravvede dove mi aspetto di vdere il sole sorgere.
La giornata promette qualcosa di buono, nonostante le previsioni, ma mente senza alcun ritegno.
Sono sempre per strade secondarie, per scelta e per imitare R.F. Scott.
Dopo una cinquantina di chilometri passati nella tranquillità totale e nella ancor viva speranza di una giornata, per lo meno, mediocre, si alza un vento bastardo.
Percorro strade che tagliano in due colline spoglie, il vento non trova ostacoli e soffia deciso in direzione contraria e trasversale al mio senso di marcia (potrebbe mai essere diversamente?), sollevando nuvole di neve polverosa, che devo attraversare facendo ricorso a tutta la fiducia che dispongo nel mio senso di ragno.
Ai lati della strada, le dune nevose assumono forme improbabili, la fantasia del vento è indiscutibile.
A tratti, file di alberi smorzano la forza della natura, ma difficilmente riesco ad inserire per lungo tempo la quarta marcia, la neve si infila in macchina attraverso le microscopiche fessure tra le guarnizione delle portiere e quelle del tettuccio.
Arrivo a Barnaul, tutto sommato, abbastanza agevolmente ed ora sono qua, ad aspettare il tempo utile per entrare in Kazakistan, a cercare di dare un senso a questi giorni, a convincermi che tutto questo sia più necessario che utile.
Da oltre due settimane sono fermo in questo posto.
Un’immobilità soprattutto dei pensieri.
Ripartire, domani, mi costa fatica.
Fatica ed incertezza smorzano la mia volontà di proseguire.
Resto riluttante ad abbandonare la tranquillità, seppur noiosa, di questa sosta forzata, troppo lunga per non assumere le fattezze di un’abitudine rassicurante.
Riprendere la strada significa rituffarsi nell’incertezza del viaggio, nelle paure del fallimento, dimenticate per queste due settimane.
Ricominciare a tender l’orecchio a rumori inconsueti, a pensare ad improbabili soluzioni a problemi ipotetici.
Ral momento, mi trovo ad astana, la capitale del kazakista, in attesa dei pezzi di ricambio che mi permetteranno di riportare la macchina alla sua piena funzionalità.
nel frattempo, mi godo questa futuristica città, con i suoi palazzi ultramoderni, spettacolari e perfino fuori luogo.
Tutto ciò, ora, sovrasta la mia voglia di far strada e così sarà finché la strada non scorrerà veloce pochi centimetri sotto al mio culo, con neve e vento e presentimenti che continueranno ad inseguirmi, seppure a qualche metro di distanza, pronti a raggiungermi alla prossima sosta… alla prossima ripartenza.
Nemmeno i doganieri del confine russo-kazako avevano molta voglia di passare più tempo del necessario all’aperto, con una temperatura di meno venti gradi.
La perquisizione dei bagagli, quindi, è stata sommaria, superficiale e soprattutto rapida, su entrambi i lati della frontiera.
La steppa kazaka, che già si annunciava dalla parte russa con una certa sollecitudine, nonché protervia e perseveranza, al di fuori della russia si è proiettata in una dimensione che va ben oltre la semplice noia.
La strada dritta come un filo a piombo e la piattezza del panorama circostante, mi hanno scaraventato in uno spazio che non può esistere, in un tempo che non ha niente a che vedere con orologi, clessidre o fiumi che scorrono.
I pensieri vagavano, liberi di incontrare idee folli, vite parallele, universi ipotetici, girandoci intorno, prendendoli per il culo o innamorandosi di loro.
La velocità della cinquecento non aiutava.
Ad interrompere il viaggio psichedelico ci ha pensato una pattuglia della polizia.
Mi hanno incrociato con la loro auto, hanno visto che non avevo i fanali accesi, hanno fatto inversione per venirmi a fermare.
Quello che scende fa il simpatico, guarda i documenti, sorride e mi chiama per nome, poi, viscido come la morte, mi fa capire che deve farmi la multa, ma non vorrebbe… cioè, vorrebbe che io pagassi, ma senza scrivere niente.
Io, che dovrei capire al volo, nonostante non sappia (quasi) una parola di russo, faccio lo gnorri e lo guardo con un’espressione tra l’interrogativo e lo sconcertato… Poi, gli faccio capire che, se deve farmi la multa, la faccia.
Mi fa salire sulla macchina, accanto al collega al volante… stessa scena!
Gli dico che voglio la multa, lui dice che non la vuole fare.
Quel che dice, in realtà, anzi, quel che mima è che, se mi fa la multa, mi deve sequestrare la patente.
Ato per cedere, tra me e me faccio mente locale su quali tagli di banconote ho nel portafoglio, tra euro, rubli ed altre valute.
Con uno scatto d’orgoglio, tento un’ulteriore disperata resistenza passiva.
Insiste, dice che mi sequestra la patente (per le luci spente, di giorno???).
Ridendo, dico: niet!”
Lui: “da!”
Io: “niet!”
Lui: “da”!
Avremmo potuto continuare per ore…
(in effetti, quel gioco era gratis)
Comunque, ho tenuto duro, gli ho detto di scrivere la multa e lui, dopo pochi secondi, mi ha rimesso in mano i documenti augurandomi un buon viaggio (credo).
Quello che gli ho augurato io, lo lascio alla vostra immaginazione, che so fervida e pronta come e meglio della mia.
Proseguo per la mia strada, luci accese e cintura allacciata, ma ormai l’incantesimo è rotto.
Ad un centinaio di chilometri dal confine, arrivo a Pavlodar.
Pavlodar.
Credo che Pavlodar, vista dalla strada che ne attraversava la periferia per portarmi a casa degli amici che mi avrebbero ospitato, sia uno dei posti più brutti di cui io sia mai venuto a conoscenza.
Mi muovo in mezzo ad una serie di capannoni industriali, all’apparenza più vecchi di me (!), da cui una selva di ciminiere di ogni forma e dimensioni sbuffano fumi densi, di varie sfumature di grigio, che fanno da contorno inquietante alla diroccata (e pericolosa) decadenza post-sovietica che sto attraversando.
Comunque…
Arrivo ad Aksu, quaranta chilometri a sud di Pavlodar, ma ancora troppo vicino a questo polo dell’inquinamento che dovrebbe, secondo quanto mi hanno raccontato, produrre energia elettrica, e sono accolto, sfamato e riposato da una banda di motociclisti (al momento con i mezzi in letargo) che mi coccoleranno fino a domattina.
La grigliata serale è stato l’apice della giornata.
Sono tutti musulmani, ma, come dicono loro, musulmani russi!
Quindi: carne deliziosa di maiale, la giusta quantità di vodka e chiacchiere (santo traduttore google prega per noi) e banja (la sauna), nel mezzo della quale non poteva mancare un tuffo nella neve del giardino… giuro: stavolta, avevo le mutande!
Domani, riparto.
Vado ad Astana, la capitale (ora: Nur Sultan), dove arriveranno dall’Italia i pezzi di ricambio che mi servono ed incontrerò un amico, che mi aiuterà a trovare un meccanico affidabile per fare il lavoro.
Quanti poliziotti ci saranno sulle strade kazake?
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